Lo strano paradosso del Parmigiano
Protagonisti del racconto un giovane storico e un coetaneo avvocato, entrambi di Parma, che si recano negli States per sventare una manovra degli yankee per appropriarsi del prestigioso marchio del Parmigiano Reggiano. I nostri eroi riescono nell’intento replicando quanto realmente accaduto nel 1896, quando i lodigiani volevano appropriarsi della preziosa denominazione e furono sconfitti grazie a un tal Carlo Rognoni che vergò un inoppugnabile «Per la storia del formaggio grana». I dilemmi del made in Italy sono dunque sbarcati nella letteratura di tendenza, autore del racconto è infatti Wu Ming, il collettivo di giovani che agisce sotto pseudonimo e che è riuscito a rendere l’atmosfera di un microcosmo, quello del Parmigiano, in bilico tra tradizione e modernità. Non è un caso, infatti, che nonostante le vendite abbiano retto alla Grande Crisi, si susseguano in Emilia convegni e tavole rotonde sul futuro del prezioso formaggio. Il Parmigiano è diventato materia da think tank perché c’è la sensazione di essere arrivati al capolinea, «alla fine di un modello produttivo basato su una realtà che nel frattempo è profondamente mutata» spiega Filippo Arfini, professore all’università di Parma e studioso del settore agro-alimentare.
La leggenda che si tramanda tra Reggio e Parma narra di agricoltori, casari e stagionatori che si passano religiosamente le regole del gioco e che si attengono scrupolosamente agli standard di qualità. Ma ora i piccoli caseifici chiudono, in 15 anni infatti sono passati da 600 a 400 e le previsioni dicono che potranno fermarsene a breve altri 70 nella sola provincia di Parma. In zona anche gli agricoltori che producono il latte per il formaggio segnano il passo, tra il 2006 e il 2008 hanno chiuso in 150. I casari, in alcune realtà, continuano ad essere lavoratori cottimisti e spesso gli stessi caseifici di tipo cooperativo seguono la sola strategia di trasformazione del latte «da liquido a solido» perdendo il valore aggiunto della qualità e non seguendo il formaggio nel percorso commerciale. Produrre Parmigiano Reggiano, nonostante prestigio e notorietà del marchio, non equivale a usufruire di una rendita di posizione, tutt’altro. Sarà perché i caseifici sono mono-prodotto e perché devono affrontare una stagionatura di 24 mesi che comporta pesanti oneri finanziari, non è un Bengodi. In tanti preferiscono vendere a metà percorso a grossisti-stagionatori che a loro volta non potrebbero vivere solo di questo lavoro e quindi in diversi casi sono produttori anche di Grana Padano, il formaggio diretto concorrente. I critici parlano di un evidente conflitto di interesse perché i padanisti giocano con una doppia casacca e non sono votati alla religione del Parmigiano. Altri sostengono invece che bisogna lasciarsi il passato alle spalle e guardare più che alla sopravvivenza delle singole aziende a una nuova organizzazione della filiera. Per Corrado Giacomini, docente a Parma e relatore di molti convegni, la ristrutturazione in corso è tutt’altro che negativa e ha già permesso la nascita di aziende più strutturate. È il caso di Parmareggio - che fa capo alle Coop rosse - arrivata a controllare il 20% del mercato del Parmigiano e abile al punto da sviluppare un suo brand da abbinare a quello collettivo del Consorzio.
http://www.corriere.it/
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