sábado, 10 de julho de 2010

Addio a Lelio Luttazzi

Lelio Luttazzi (Ansa)

Addio a Lelio Luttazzi, l’elegante pigrizia «oblomovista».   Quel rifiuto del mondo cominciato quando Walter Chiari lo accusò ingiustamente
Lelio Luttazzi con Walter Chiari (Olympia)

Un’elegante pigrizia o un pigra eleganza: difficile trovare una combinazione lessicale per abbozzare un ritratto morale di Lelio Luttazzi. Ma è certo che la pigrizia e l’eleganza sono state per lui due categorie dello spirito prima ancora che un modo d’essere, un’attitudine. Diceva di essere pigro, ma dovette combattere a lungo contro una pigrizia mediatica che rischiava di schiantarlo per sempre. Nelle rare interviste Luttazzi si definiva con civetteria tutta letteraria «oblomovista» («non vi spiego cosa vuol dire, sarebbe troppo lungo»), cioè apatico e fatalista come l’eroe del romanzo di Goncarov. Era il suo modo di difendersi, soprattutto dopo l’episodio che ha segnato la sua vita. Com’è noto, nel ’70 Walter Chiari lo implicò sconsideratamente in una storia di droga. Luttazzi finì in prigione e ci restò un mese. Nonostante fosse stato completamente scagionato, non si riprese più dalla botta (anche perché Chiari non lo degnò nemmeno di una telefonata di scuse). Lo racconta nell’unico libro che pubblicò, «Operazione Montecristo».

Da allora cominciò a negarsi, agli amici e al lavoro, entrando in una sorta di esilio volontario: «Ho eletto Oblomov a mio modello. L'oblomovismo non e' solo pigrizia, inettitudine, incapacità di azione. È tutto questo ma anche deliberata autoemarginazione, intransigente rifiuto di tante cose che per gli altri sono importanti: il lavoro, l' efficientismo, il giovanilismo, la carriera... ». Già ma la sua pigrizia cozzava contro la pigrizia dei giornalisti, la pigrizia degli archivi. E tutte le volte che una persona importante veniva ammanettata per droga saltava fuori questa storia dell’arresto. Che fare? Impassibilità? L’elogio della pigrizia rischiava di tradursi nel suo contrario, nella maledizione: «Ogni tanto querelo. Vinco sempre. E con una querela che mi son preso il lusso di comprare la barca, la mia Oblomov».

Non diceva di essere elegante, lo era. Un signore della mitteleuropa nel mondo sbracciato dello spettacolo romano. Un’eleganza che è rimasta senza scalfitture ed è riapparsa intatta nella sua luminosa apparizione da Fiorello nel 2006. Luttazzi è stato protagonista di una stagione televisiva che allestiva spettacoli «da fare invidia a Broadway», primo fra tutti «Studio uno», con ospiti fissi e d'onore, sontuose scenografie, lussuosi balletti, grandiose regie, vedette canore del calibro di Mina, perfette professioniste come le gemelle Kessler. Un modello di eleganza tv mai più raggiunto. Ma per lui l’eleganza era soprattutto un modo di esprimersi, un’inattualità che sarebbe diventata il suo marchio. Quando si rievoca l’epopea radiofonica di «Hit Parade» si dimentica di sottolineare che Luttazzi era la persona meno adatta a condurre quel tipo di programma: non era la sua musica, non conosceva quel nuovo metro di giudizio, gli era estraneo il «giovanilismo ». Eppure, usando l’eleganza come arma impropria, fu memorabile.    Esattamente come nell’interpretazione de L’avventura di Antonioni: non c’entrava niente, nulla aveva da spartire con l’incomunicabilità e gli intellettualismi del regista. Ma era un signore, un re. E nessuno può battere in eleganza un re in esilio

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